Scienze economiche e sistemi complessi: spunti per una riflessione

braincogs123_zpsda563d84Nel saggio “The theory of Complex Phenomena” (1964), Friedrick von Hayek scriveva:

Ciò di cui ci dobbiamo liberare è l’ingenua credenza  che il mondo sia organizzato in modo tale che sia possibile scoprire, attraverso l’osservazione diretta, delle semplici regolarità tra tutti i fenomeni e che questo sia un presupposto necessario per l’applicazione di un metodo scientifico. Quello che abbiamo scoperto fino ad adesso sull’organizzazione di molte strutture complesse dovrebbe essere sufficiente per insegnarci che non c’è alcun motivo che giustifichi questa aspettativa e che, se vogliamo continuare a progredire in questi ambiti, i nostri obiettivi dovranno essere ben diversi dagli obiettivi che ci poniamo nell’ambito dei fenomeni semplici.”

Come sottolineava Hayek, nell’ambito dei fenomeni complessi la ricerca di leggi naturali la cui scoperta consente di determinare l’evoluzione del sistema, rappresenta una chimera. Un sistema complesso non può essere previsto in maniera deterministica e il concetto stesso di “metodo scientifico” in questo ambito deve mutare rispetto alla sua adozione in ambiti più semplici.

Cinquant’anni dopo la pubblicazione di questo saggio, la lezione di Hayek resta in gran parte inascoltata. Le scienze economiche si sono evolute identificando, o pensando di identificare, delle regolarità in grado di spiegare e, in un certo senso predire, l’evoluzione dei sistemi economici. Tali regolarità, lungi dall’essere “scientifiche”, hanno nel tempo assunto una valenza ideologica. Esse spiegano il mondo non per come realmente è (complesso e non deterministico), ma per come i promotori di tali regolarità l’hanno concepito. Essendo le idee degli “scienziati economici” molto diverse tra loro, ciò che appare a taluni come una legge universale, appare ad altri come un’idea bislacca. In sostanza è considerato “scientifico” solo ciò che nasce nell’alveo della propria ideologia e visione della realtà.

Lo scontro ideologico tra economisti è apparso, in questi anni di crisi, in tutta la sua forza. C’è chi sostiene con vigore che il rigore dei conti porterà alla crescita grazie alla nuova credibilità del Paese e chi invece considera il rigore come una delle principali cause della bassa crescita e individua nell’aumento della spesa pubblica e degli investimenti la molla per far ripartire l’economia.

Un esempio analogo riguarda il lungo e acceso dibattito sull’aumento di liquidità nel sistema. Serve o non serve per rilanciare l’economia? Anche qui le opinioni sono state opposte. Sì serve, anche se porterà ad una crescita dell’inflazione, dicevano alcuni. No, è meglio non esagerare con la liquidità perché innescherà una spirale  iper-inflattiva che distruggerà tutti i potenziali benefici di questa scelta di politica economica. Come è noto, oggi il rischio reale non è l’inflazione ma la deflazione e tutti gli esperti si sono riposizionati per fornire le loro (diverse) ricette per scongiurare questo pericolo.

Che dire infine delle diseguaglianze dei redditi? Per alcuni (Piketty) sono la fonte di ogni male, per altri sono la spinta vitale della crescita economica (Kuznets).

Cosa ci insegna tutto questo? Per fare un passo avanti si dovrebbe comprendere che ciò che noi chiamiamo “economia” è una nostra costruzione di fantasia. Non esiste nessuna economia. Esistono milioni di interazioni quotidiane tra individui, imprese, istituzioni che definiscono  continuamente la realtà di oggi e la potenziale realtà di domani. Come si può pensare di studiare questo genere di complessità come se fosse un sistema chiuso e regolato da leggi universali?

Aiuterebbe certamente l’abbandono di termini quali “scienze economiche” e “scienze politiche”. Si dovrebbe più correttamente parlare di “filosofie economiche” e “filosofie politiche”. Nutro grande rispetto e amore per la filosofia, quindi non intendo in nessun modo sminuirne l’importanza come disciplina e approccio di pensiero e conoscenza. Lo scopo della mia provocazione è quello di far scendere dal trono delle certezze coloro che lo hanno usurpato. Mentre è un piacere assistere ad un dibattito tra filosofi che hanno visioni diverse della realtà. Lo stesso dibattito tra economisti (o politici) è inascoltabile perché ognuno pensa di avere la verità in tasca in forza di modelli interpretativi del mondo che magari hanno anche superato il vaglio dei modelli matematici, ma che rappresentano mere semplificazioni ideologiche. I filosofi attraverso il confronto fanno progredire la conoscenza. Gli economisti attraverso lo scontro la fanno regredire.

Bisogna quindi cestinare secoli di studi sull’economia? Assolutamente no. Le diverse teorie economiche, pur non avendo carattere predittivo, possono essere estremamente utili per impostare le politiche economiche nazionali e internazionali. L’economia, in quanto sistema complesso, reagisce agli stimoli, alle perturbazioni. La reazione è tuttavia, complessa e non prevedibile. Se gli economisti vogliono essere maggiormente ascoltati e avvicinare la loro disciplina alla scienza, a mio parere, devono affidarsi meno a modelli e algoritmi e affinare di più le loro conoscenze sulle dinamiche sistemiche. Non serve una ricetta per indirizzare un sistema economico, serve un set eterogeneo di “armi” che possono guidarlo nel tempo in una logica di apprendimento e aggiustamento continuo. Questo richiede l’abbandono delle ideologie economiche e l’onestà intellettuale di riconoscere la validità, in certi contesti e condizioni, delle teorie di esperti che la pensano diversamente.

Norbert Weiner ha definito la cibernetica come “l’arte del timoniere”. Il timoniere tiene la rotta non perché è statico, ma perché aggiusta in ogni momento la rotta a seconda di un groviglio di tendenze e di controtendenze assolutamente imprevisto e rinnovabile. Ogni buon economista e governante dovrebbe essere un timoniere che interpreta la specificità (qui ed ora) del proprio contesto e prova a farlo evolvere attraverso l’intero bagaglio di conoscenze che esso dispone. Pronto in ogni istante a leggere i cambiamenti del sistema e ad adeguare la propria rotta.

Questa velocità di azione e di continuo accoppiamento reciproco con il sistema che si vuole guidare è del tutto impossibile se il processo decisionale è lento e viziato da continui scontri ideologici.

Oggi ci scontriamo sulla migliore strategia per far ripartire l’economia. Il problema sta proprio in questo. Non esiste una strategia ottimale, una via giusta e perfetta che funziona universalmente. I sistemi complessi non funzionano in questo modo. La ricerca della via ottimale può andare bene per risolvere un problema chiuso circoscritto, complicato, ma quando entrano in campo milioni di interazioni e interconnessioni, l’individuazione della migliore strategia perde di senso. L’evoluzione del sistema emerge continuamente dal suo dinamismo interno. Per governare (e non certo per controllare) questo genere di sistemi occorre dotarsi di un set di possibili strade. Un set che cambia continuamente al mutare del contesto (che quindi necessita di una continua reinterpretazione).

E’ proprio ciò che intendeva Antonio Machado quando affermava che la “rotta la si fa con il cammino”. Le ricette e le ideologie economiche potranno contribuire al benessere di persone e Paesi solo se perderanno l loro presunzione ideologica di essere “scientificamente corrette” (nell’accezione più integralista del termine). E’ il contesto che dirà di momento in momento, e di specificità in specificità, quale tra queste teorie potrà essere di maggior aiuto.

Senza questo sforzo il rischio è che la “scienza economica” ci forzi su una rotta prestabilita che porta dritta dritta sugli scogli di Scilla e di Cariddi.

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