Letture – Decidere nell’incertezza

Alberto Gandolfi, autore del noto “Formicai, imperi e cervelli” – qui una recensione di Vittorio  Zuccalà –  e di molti altri volumi dedicati alla scienza della complessità, mi ha gentilmente regalato il suo ultimo libro “Decidere nell’incertezza”.  Quest’anno avevo deciso di portarmi in vacanza solo romanzi e dimenticare letture più impegnative. L’argomento del libro di Gandolfi era però particolarmente stuzzicante e quindi, dopo aver caricato 4 romanzi sul mio Kindle ho messo in valigia anche la sua ultima fatica.

Alberto ha scritto un libro che dovrebbe trovare spazio nelle librerie di tutti i manager e decision makers. Unisce facilità di lettura e approfondimenti teorici (sul sito dell’editore è infatti possibile scaricare una ricchissima appendice con i riferimenti bibliografici e scientifici) e consente una rapida presa di coscienza dei pensieri e degli approcci più efficaci per decidere in situazioni di alta complessità.

Il libro è suddiviso in tanti brevi capitoli, ognuno contenente una diversa strategia/consiglio utile a migliorare l’efficacia del processo decisionale. Si va dalla consapevolezza delle trappole cognitive, alla comprensione dell’evoluzione dei sistemi, dallo sviluppo di visione periferica al ruolo degli errori, dalla generazione di resilienza all’estensione dello spazio decisionale.

Oltre ad agevolare la lettura, la suddivisione del libro in tanti brevi capitoli consente di focalizzare l’attenzione sulla strategia più utile a decidere in una determinata situazione. Molto apprezzabile è anche lo sforzo dell’autore di trovare molti esempi di come si possa applicare quella determinata strategia decisionale a livello personale o aziendale.

Ritengo che i contenuti di “Decidere nell’incertezza” siano molti utili ed efficaci per accrescere l’efficacia del processo decisionale e quindi li condivido in grandissima parte.

Visto che è giusto evidenziare anche qualche aspetto meno entusiastico di un libro (che comunque mi è piaciuto molto), muovo quindi ad Alberto una piccola critica, che naturalmente riflette solo il mio punto di vista sull’argomento. Mi riferisco all’utilizzo degli scenari. Il suo consiglio recita “Elaborate diversi scenari per lo sviluppo futuro del vostro sistema. Considerate anche scenari estremi, definendo uno scenario peggiore e uno migliore. Oltre ala vostra decisione, preparate un piano B, nel caso in cui le vostre ipotesi (e le vostre certezze) si rivelassero sbagliate”.  Condivido l’idea di elaborare molteplici scenari, condivido meno il suggerimento di creare un piano B.

Se infatti siamo di fronte ad una situazione ad alta complessità, dovremmo probabilmente preparare anche il piano C, il piano D, il piano n. Ritengo che la costruzione di scenari sia utile più che a preparare piani di contingenza, a modificare il mindset del decisore che, attraverso l’esplorazione di diverse alternative di mondo, si rende consapevole delle possibili ripercussioni sulle proprie decisioni e sugli impatti di queste sul sistema. Dal mio punto di vita quindi la costruzione degli scenari è più uno strumento per “complessificare” il pensiero del decisore, rispetto ad uno strumento operativo che porta alla costruzione di piani d’azione alternativi. Questo perlomeno in situazioni di grande complessità. Per livelli di complessità più bassi, in cui è possibile identificare solo pochi futuri alternativi,lo scenario planning può invece efficacemente essere utilizzato come innesco per la definizione di veri e propri piani di contingenza.

Naturalmente se Alberto vorrà replicare o approfondire il suo punto di vista su questo specifico aspetto, il suo commento sarà molto prezioso.

Concludo con una citazione di Thomas Homer-Dixon tratta dal capitolo introduttivo:

Non solo ignoriamo spesso elementi critici, processi e possibilità dei sistemi complessi che ci circondano, ma siamo persino ignoranti della nostra ignoranza. Spesso non sappiamo che cosa non sappiamo”.

Il libro di Alberto Gandolfi è di grande aiuto per rendere i decisori più consapevoli delle dinamiche tipiche dei sistemi ad alta complessità e delle possibili retroazioni sistemiche delle loro decisioni  sulla realtà che devono governare.

12 pensieri su “Letture – Decidere nell’incertezza

  1. Alessandro,
    grazie per la dritta di questo nuovo libro.

    Se capisco bene la tua piccola critica, suggerisci che oltre che complessificare il sistema è necessario complessificare, attraverso nuovo mindset, il decision maker per il quarto principio della complessità “impossibilità della previsione” (cfr .A De Toni). Bene. Allora cosa ne pensi delle pratiche di management attuali che causano pian piano l’estinzione delle nostre aziende? Come immagino sarai daccordo nel dover spingere verso un nuovo approccio del management ma … provocandoti … perchè non iniziamo a esemplificare come, ad esempio, una tecnica di nuova generazione può sostituire lo Scenario Planning, o lo stesso Planning, o magari il Performance Management?
    Secondo me è arrivato il momento di calare soluzioni per poi, in maniera retroattiva, avere riscontri per migliorare l’impianto teorico! Tipping point!

  2. Grazie del commento Giorgio. Suddivido in due parti la mia risposta. Inizio dal tema oggetto della mia piccola critica. Io non penso sia necessario trovare un nuovo strumento (orientato ala complessità) che sostituisca lo scenario planning. Ritengo che debba essere diverso l’utilizzo che se ne fa. Il pensiero strategico occidentale si basa sulla modellizzazione e quindi per noi ogni obiettivo si raggiunge facendo un piano. Nelle situazioni ad alta complessità questa pratica è inutile e molto costosa (come il processo di budget classico). L’utilizzo dello scenario planning dovrebbe quindi essere finalizzato a molteplicare le “alternative di mondo” che i manager e i decisori individualmente e collettivamente dispongono. Questo permette di limitare il rischio di sorprese sistemiche nemmeno immaginate.
    Per quanto riguarda il nuovo approccio al management, sono d’accordo con te, non basta criticare le attuali prassi, occorre proporne di nuove. Su questo tema mi piacerebbe che tu leggessi l’articolo che ho pubblicato su Emergence Complexity & Organisaton a giugno. Lo puoi scaricare dal blog dal post precedente. Ti invio anche via mail un articolo che ho scritto per un convegno a cui ho partecipato lo corso anno e che sarà pubblicato entro fine anno in un libro curato da Gianni Vattimo. In quel caso, partendo dai principi su cui si fonda il management attuale cerco di proporne nuovi, più coerenti con la complessità.
    Se ti va fammi sapere cosa ne pensi.

  3. Non sono molto convinto della tua idea.
    Secondo me anche in situazione di alta complessità è necessario il modeling, il teorema Ashby – Conant docet. Certo è un nuovo modo di fare modeling ovvero basata su principi diversi rispetto a prima come per esempio il system thinking. Questo ci da il destro per avere un posto logico e fisico molto flessibile, dinamico parametrico per simulare i cigni neri inserirendo a modello il concetto di sistema, a là east thinking (cfr Hi-Ching), nel nostro modus pensandi.
    Si non sono banale anzi … non so proprio cosa ho scritto ; ) .. .spero tu intienda!!!!

    asap leggo articolo con piacre, grazie

  4. Probabilmente dipende da cosa si intende per modeling. Io critico soprattutto la tendenza, in situazioni di forte complessità, a fare piani d’azione per raggiungere un TO BE. Il piano d’azione considera la realtà come se fosse ferma e non tiene in considerazione il fatto che ogni attività realizzata dal nostro piano si sommerà alle altre interazioni e cambierà continuamente il sistema. Preferisco una strategia che emerga step by step (ma per questo ci vuole un contesto adatto…) In questo Sun Tzu sembra essere più avanti di molti studiosi di strategia di oggi (https://complessita.wordpress.com/2011/03/10/strategia-e-arte-della-guerra/). Ciao!

  5. Molto interessanti gli spunti dell’articolo, del libro e dei commenti.
    Trovo veramente interessante e moderna la visione del management che propone Alessandro nell’articolo incentrato sulla differenza tra estrazione e creazione di valore così come molto sensate le sue considerazioni sulla necessità di “flessibilità” nell’uso dei modelli. Questi due argomenti (management della estrazione di valore e “rigidità” nell’uso dei modelli) sono IMHO tra le principali cause del sistema occidentale in uno scenario a complessità crescente degli ultimi decenni.
    Uno dei migliori modelli organizzativi per rispondere a questo scenario è a mio modo di vedere il modello di impresa “agile” (qualcosa di sintetico si trova qui http://en.wikipedia.org/wiki/Agile_management). I metodi agili (http://it.wikipedia.org/wiki/Metodologia_agile) nascono, non a caso (ambiente complesso per definizione …) in ambiente di sviluppo SW alla fine degli anni ’90 (si concretizzano in questo manifesto http://www.manifestoagile.it/). Non a caso si contrappongono ai metodi di gestione waterfall (rigidi e molto legati ad un piano) e ne stanno (lentamente ma inesorabilmente) uscendo vincitori. Questi concetti si stanno gradualmente estendendo anche alle organizzazioni e molti modelli nati in ambiente SW si stanno gradualmente adattando anche al di fuori del contesto in organizzazioni più tradizionali.
    Sul concetto di agilità ho scritto appunti personali qui http://www.stefanogatti.info/nuvolediconoscenza/?p=136, se a qualcuno interessasse approfondire attraverso i link.

    • Credo Agile sia quasi a buzzword.
      Così come Lean, Six Sigma, …
      Tutti questi, ma soprattutto Agile, hanno una precondizione che spesso non viene ben dichiarata e cioè che, affinchè sia possibile avere buone speranze di successo in questi programmi, vi devono essere persone MOTIVATE e SKILLATE altrimenti non ne esci! oopsss

      Beh … sembra essere, almeno dalle mie parti, una risorsa veramente scarsa!

    • Scrivi “Uno dei migliori modelli organizzativi per rispondere a questo scenario è a mio modo di vedere il modello di impresa “agile” ”

      Non ne sono convinto e cioè penso che i programmi di continous improvement (ci metto anche Agile) non sono adatti a rimuovere complessità
      poichè (permettimi il cope&paste, nulla si crea ma tutto si copia)

      ” … in physical terms, the second principle of thermodinamics established that the only way to reduce the entropy of a system is increasing the entropy of the environment. Then if you remove the entropy of a process you must be increasing the entropy of its environment. If this process is connected to other ones in the organization, you can be turning them into more inneficent ones. This is the real challenge of complex systems, to find a way to cope with this.
      The only way to avoid this issue is to analyze the whole organization from a systemic viewpoint. Continous improvement techniques without an additional full systemic analysis can be very poor tools in a highly complex organization.”
      L.D.Saco

      • Non pretendo di convincerti ma a mio avviso (e per esperienza vissuta) i metodi agili non sono affatto assimilabili ai metodi di continous improvement. In prima battuta perchè (come scrive giustamente inobrec) non cercano di ridurre la complessità ma cercano di “cavalcarla” e adattarsi ad essa. Sono molto diversi i piani di miglioramento continuo con il concetto dei cicli di sviluppo (progettazione) “brevi” che propone l’agile che hanno lo scopo proprio di adattarsi alle mutate condizioni al contorno del progetto/ambiente

  6. Ciao Alessandro, poni sempre temi interessanti, come sai da anni mi occupo proprio di sviluppare soluzioni nella direzione di consentire la massima flessibilità sino al punto da poter cambiare interamente business senza cambiare la natura dell’impresa. Una specie di adattabilità totale che consenta l’emersione di forme dinamiche di aggregazione. Quindi non posso che essere d’accordo con te nella osservazione che fai di avere non solo un piano B ma una molteplicità di possibili soluzioni. Per contro non posso non rilevare che per arrivare a quanto ho detto sopra il cambiamento culturale è elevato, già l’idea proposta dall’ottimo Gandolfi, che stimo moltissimo, è in molti contesti, ancora oggi, estremamente rivoluzionaria. Per mia esperienza di fatto i manager più “svegli” nell’approccio tradizionale formulano sempre delle alternative, almeno a livello mentale o individuale, ma non trovano una formulazine in forma di piano se non quando si verifica l’evidenza dei problemi delle scelte fatte e si richiede di effetuare degli inteventi “correttivi”. In pratica la formulazione di piani B è un jolly che molti manager si tengono nella manica per fare figura e migliorare la propria posizione. Nelle PMI invece nella maggioranza dei casi i vertici sono abituati a non condividere le proprie scelte ma ad imporle in modo più o meno dialettico; per cui imporre un cambiamento è una scelta che presuppone una sensibilità da parte dell’imprenditore, molto spesso abituato a vivere alla giornata, o comunque con un orizzonte di pianificazione molto breve e spesso volutamente vago. In queste realtà, salvo che le imprese non siano nate per una concomitanza di fattori favorevoli, l’essere “mutevoli o umorali” fa parte anche dell’atteggimento dell’imprenditore che si sente in dovere di mostrare un “acume e un fiuto” per gli affari che giustifica cambi di direzione e di scelte anche in contraddizione con le precedenti. Nel caso delle imprese dove invece la componete di concause favorevoli è rilevante si creano spesso le forme di maggiore rigidità e miopia che, salvo eventi rari, sfociano in progressivi crolli allo scemare delle condizioni che ne avevano favorito la crescita proprio per l’incapacità di sviluppare alternative.
    Riguado all’approccio Agile che indica Stefano la sua introduzione nel campo del management dal settore IT è frutto del’attuale evoluzione delle logiche Lean Six Sigma, e negli utimi tempi sta suscitando un notevole successo dovuto agli effeti di estrema efficenza che introduce e sopratutto per cambiamto di paradigma da push a pull che ancora non è molto diffuso da noi, almeno nella pratica. Logiche che consentono di focalizzarsi alla fin fine sulla domanda ottimizando il conseguimento dell’obiettivo. L’efficacia è implicita nel soddisfacimento della richiesta in tutti i suoi aspetti. L’ho anche applicata alle sue origini per dei progetti sw di ampie dimensioni che altrimenti avrebbero avuto costi e tempi improponibili con gli approcci classici o heavy. Uno dei pilastri della metodologia “Rispondere al cambiamento più che seguire i piani” va infatti nella direzione delle tue osservazioni, nato nel mondo del sw dove i cambamenti tecnologici erano esaperati consentiva di accettare revisioni anche rilevanti in corso d’opera sino a rimettere in discussione intere piattaforme se le sostitutive erano in grado di raggiungere i risultati con maggiore efficacia e efficenze. Riguardo alle soluzioni che possano consentire una flessibilità estrema sto andando avanti con il concetto di “framework di euristiche”, di cui ti avevo accennato, che consete di fatto di operare in condizioni di cabiamento continuo.

  7. Interessante testo e interessante dibattito 🙂
    C’è una fase in cui bisogna fare scenari per cogliere la complessità. Come mezzo, non come fine. Come prassi per allargare i punti di vista sulle variabili e incognite. Questa fase propedeutica dovrebbe essere assimilata e non delegata solo alla “tecnica” e “fase” dei scenari. Non si riesce a fluire con scenari complessi e la loro imprevedibilità se la reattività non diventa una abilità dei singoli e del sistema azienda (psicologica, culturale, metodologica, tecnologica).

  8. eccomi, sono l’autore…
    con un po di ritardo rispondo a Alessandro
    Prima di tutto lo ringrazio per l’ottima e non banale recensione.
    In merito agli scenari: capisco la riflessione di Alessandro, la posso anche condividere a livello teorico. A livello pratico però ci scontriamo con ovvi vincoli di tempo e risorse. In altre parole: sono d’accordo che sarebbe ideale immaginare diversi scenari (B,C,D,…), ma nella realtà aziendale purtroppo sappiamo che raramente ho il tempo, la capacità e l’energia per farlo.
    Inoltre: anche elaborare un solo scenario alternativo (Piano B) potrebbe portare a una significativa apertura su sviluppi non previsti. Pareto insegna: con pochissimi scenari dovrebbe essere possibile coprire una gran parte dei possibili sviluppi futuri. E infine come nota Alessandro, il fatto stesso di elaborare uno scenario alternativo ci impone di aprire la mente, di aumentarne i possibili “stati” nel senso di Ashby.

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