Corruzione, disoccupazione e abilità cognitive: come la cultura influenza l’economia

Nell’articolo pubblicato su L’Impresa di dicembre  descrivevo l’impatto della cultura aziendale sulla strategia d’impresa. Riprendo ora il tema della cultura presentando due interessanti ricerche riguardanti l’influenza degli aspetti culturali sull’economia. Naturalmente, in questo caso non mi riferisco alla cultura aziendale, ma alla cultura in senso più ampio.

Inizio con una considerazione un po’ polemica.  Tradizionalmente la gran parte degli assunti economici considera l’uomo come homo oeconomicus, quindi perfettamente razionale e caratterizzato dalla ricerca della massima utilità personale. Negli ultimi 30 anni, questo assunto è stato più volte smentito in decine di studi che hanno confermato come il comportamento reale delle persone sia molto lontano dallo stereotipo dell’homo oeconomicus. Queste nuove ricerche non sempre sono state pienamente accettate dalla dottrina. Nel giudizio di George Stigler e di Gary Becker (entrambi premi Nobel per l’economia), ad esempio, gli economisti che usano i fattori culturali a sostegno delle loro argomentazioni stanno semplicemente cercando di nascondere l’inconsistenza delle loro analisi…Non intendo citare i molti esperimenti che mostrano comportamenti economici molto lontani dal modello di Homo oeconomicus. La maggior parte di questi nascono dai lavori di Daniel Khaneman e Amos Tversky. Sono molto noti e non intendo riprenderli in questo post. Desidero invece presentare due ricerche molto più recenti e meno note rispetto ai lavori di Kahneman e Tversky.

La prima è stata condotta nel 2007 da due economisti americani, Raymond Fisman (della Columbia University) e Edward Miguel (di Berkeley) nel loro paper: “Corruption, Norms  and Legal Enforcements: Evidence from Diplomatic Parking Tickets”, pubblicato nel Journal of Political Economy (un estratto è disponibile sul Global Corruption Report 2008). Fino al 2002 gli ambasciatori stranieri, grazie alla loro immunità diplomatica, potevano parcheggiare nelle aree a pagamento di Manhattan senza timore di incorrere in sanzioni. Attenzione, gli ambasciatori non avevano il diritto di parcheggio in quelle aree, solo non potevano essere puniti nel caso non pagassero il ticket. Siamo quindi di fronte ad un potenziale comportamento scorretto che non può essere sanzionato. Tra il 1997 e il 2002 i diplomatici hanno omesso di pagare 15.000 ticket di sosta, sottraendo alle casse municipali circa 18 milioni di dollari. Questo sfruttamento dell’immunità diplomatica equivale ad una sorta di arricchimento illecito ed è perciò molto vicino alla corruzione. La cosa interessante che hanno notato Fisman e Miguel è che non tutti i diplomatici abusavano dell’immunità per parcheggiare gratis, vi erano rappresentanti di Paesi che rispettavano scrupolosamente le norme sul traffico. Al vertice della classifica dell’abuso dell’immunità vi sono i diplomatici del Kuwait con 246 violazioni delle norme sul parcheggio a testa tra il 1997 e il 2002. Seguono gli egiziani con 139 i i diplomatici del Ciad con 124. Per contro, negli stessi 5 anni, i rappresentanti della Svizzera, dell’Olanda e dei paesi Scandinavi non hanno commesso nessuna violazione. Secondo i due economisti americani, in un ambiente depenalizzato, questi comportamenti rivelano l’atteggiamento delle persone nei confronti della corruzione. I 10 Stati che hanno fatto registrare il maggior numero di violazioni figurano tutti nelle prime posizioni della classifica mondiale della corruzione, mentre i rappresentanti di Paesi in cui la corruzione ha un peso trascurabile non abusano quasi mai dei propri privilegi. Per la cronaca, i diplomatici italiani si collocano al 47-esimo posto su 149 paesi, con una media di violazioni a testa di 14,6.

La seconda ricerca evidenza l’impatto della cultura sull’occupazione. Si tratta di uno studio condotto da un team interdisciplinare guidato dal Premio Nobel per l’Economia James Heckman. In base ai risultati di questa indagine, pubblicata nel 2006, la società avrebbe tutto l’interesse a dedicare un’attenzione particolare ai bambini svantaggiati. I primi anni di vita sono cruciali per far emergere le abilità che una persona potrà poi sviluppare nell’età adulta. La neurobiologia ha scoperto una gerarchia di funzioni cognitive, emotive, linguistiche e sociali. Queste funzioni si avvalgono di competenze apprese nei primissimi anni di vita. In assenza di un adeguato sviluppo nelle fasi iniziali di vita di un bambino, tali funzioni possono risultare deficitarie e difficilmente colmabili. Per questa ragione (e molte altre) I bambini che si trovano nella fascia più bassa della scala sociale hanno un’alta probabilità di abbandonare la scuola e di faticare a trovare un lavoro

In virtù di questa scoperta, all’interno della ricerca citata, i bambini in età prescolare di alcune famiglie problematiche degli USA sono stati raggruppati in apposite classi per sei mesi. I ricercatori ne hanno seguito la vita per diversi decenni, in parallelo con un gruppo di controllo che non partecipava al programma educativo. I ricercatori hanno scoperto che i bambini che hanno partecipato al progetto educativo erano andati più avanti negli studi, avevano redditi più elevati, erano più spesso proprietari della casa in cui vivevano e avevano una minore probabilità di finire in affidamento ai servizi sociali o in carcere.

I “ritorni sociali” di questo programma di educazione prescolastica sono stati quantificati in un incredibile 17%: in sostanza, per ogni dollaro investito in un programma per bambini svantaggiati, la società nel suo complesso guadagnava il 17% all’anno in reddito aggiuntivo o in minori spese. I risultati di questa ricerca sono estremamente interessanti. Sembrerebbe che per combattere la disoccupazione occorra puntare sull’educazione pre-scolare dei bambini.

In un Paese come l’Italia in cui costa meno mandare il figlio all’università che all’asilo nido, questi dati dovrebbero far riflettere.

7 pensieri su “Corruzione, disoccupazione e abilità cognitive: come la cultura influenza l’economia

  1. Condivido.
    La sola cosa che non capisco del tuo post è il riferimento all’economia comportamentale come se fosse una disciplina snobbata. A me risulta che essa stia tranquillamente nel mainstream della ricerca economica (dove ogni approccio, beninteso, ha i suoi supporte e i suoi detrattori), tant’è vero che, se non ricordo male, Tversky e Kahneman ebbero addirittura il Nobel per i primi lavori in tal campo. Se ne sono occupati anche altri nomi altisonanti, che ora non so citare.
    Ma, N.B., alla base di questi lavori non c’erano i fattori sociali di cui parli nel post, bensì quelli psicologico-cognitivi.

  2. Hai ragione Paolo. Alla base dei lavori di Kahneman e Tversky c’erano i fattori psicologici e cognitivi. Li ho citati perchè sono stati i primi a provare l’inconsistenza dell’homo oeconomicus e perchè i loro studi hanno originato una serie di ricerche che prendevano in considerazione i fatori culturali chiedendosi, ad esempio, ci sono differenze di comportamento tra americani, europei e cinesi? Mi ha influenzato il bel libro che sto leggendo, scritto da uno psicologo, Richard Nisbett, che descrive il modo in cui i fattori culturali influenzano i nostri processi cognitivi. Ne parlerò prossimamente.
    Per quanto riguarda l’economia comportamentale è vero che Kahneman ha vinto il Nobel, però, secondo me cìè ancora un forte sbilanciamento verso la scuola tradizionale, in particolare quella di Chicago (due terzi dei premi Nobel sono andati ad esponenti di quella scuola… anche se l’anno scorso l’ha vinto Krugman che certo non è un liberista). Inoltre, è interessante notare che Kahneman ha vinto il nobel per l’economia, tuttavia non è un economista, bensì uno psicologo. Sono moltissimi gli economisti che stanno facendo ricerche molto interessanti nel solco dell’economia comportamentale, ma non mi risultano altri premi vinti. Magari mi sbaglio, ma mi sembra che quelli che oggi sono considerati “economisti” con la E maiuscola non siano certo quelli che portano avanti le ricerche sulle differenze comportamentali…

  3. Io penso che il problema sia anche di natura pratica, non solo ideologica.

    Ossia: anche se si accetta l’economia comportamentale come specchio della realtà, ovvero se si rigetta il paradigma dell’agente economico perfettamente razionale, resta un grave problema pratico: come inserire questa realtà nei modelli matematici in uso?

    Modelli robusti e affidabili dell’homo post-oeconomicus, ammesso che esistano (io non so nulla, per esempio, del lavoro di John Nash e dei suoi [eventuali] seguaci), sono sicuramente lenti e laboriosi da introdurre nel mainstream dell’economia perché troppo complessi e intrusivi: costringerebbero a rivedere prassi consolidate e modelli in uso che sono derivati dalla teoria di von Neumann e Morgenstern.

    Dunque, se un economista si occupa di economia comportamentale, probabilmente gli difettano modelli matematici utili per dimostrare la validità dei suoi assunti in campi come i prezzi delle commodities eccetera. E allora fatica a dimostrare la presunta validità dei suoi assunti.

    In ogni disciplina scientifica, del resto, quasi sempre ci vuole un tempo molto lungo affinché le innovazioni compiano il loro cammino, specie se sono inter- e trans-disciplinari. In questo caso sono implicate, oltre all’economia, la matematica/teoria dei giochi e le scienze cognitive.

  4. La mia conoscenza delle critiche di base all’economia comportamentale è di mero livello wikipediano, ossia assai superficiale. Però anche la Wikipedia italiana, solitamente deludente, ha una discreta voce su questo argomento, e colà ammonisce che

    A) I critici dell’economia comportamentale tipicamente evidenziano la razionalità degli agenti economici (si veda Myagkov e Plott (1997) tra gli altri). Essi sostengono che il comportamento osservato sperimentalmente non è applicabile alle situazioni di mercato, in quanto le opportunità di apprendimento e la competizione assicurano come minimo una stretta approssimazione del comportamento razionale. Altri notano che le teorie cognitive, come la prospect theory, sono modelli di processo decisionale, non comportamenti economici generalizzati, e sono applicabili sono al tipo di problemi presentati ai partecipanti all’esperimento o a chi risponde ai sondaggi.

    B) Gli economisti tradizionali sono inoltre scettici circa le tecniche sperimentali o basate su sondaggi che sono usate estensivamente nell’economia comportamentale. Gli economisti tipicamente enfatizzano le preferenze rivelate, rispetto alle preferenze dichiarate (dai sondaggi) nella determinazione del valore economico. Esperimenti e sondaggi devono essere progettati attentamente per evitare pregiudizi sistemici, comportamenti strategici e mancanza di incentivi e molti economisti hanno scarsa fiducia nei risultati ottenuti in questo modo, a causa delle difficoltà nell’eliminare questi problemi. Rabin (1998) respinge queste critiche, sostenendo che i risultati tipicamente sono riprodotti in diverse situazioni e paesi e possono portare ad una buona comprensione teorica.

    Sembra, dunque, esserci in effetti una polemica tra scienziati cognitivi da un lato ed economisti dall’altro…

  5. E’ proprio questa la diatriba a cui accennavo con il riferimento a Gary Becker. Concorderai che affermare che gli economisti che ricorrono ai fattori culturali, lo fanno per nascondere l’inconsistenza delle loro analisi, non sia una posizione particolarmente aperta all’evoluzione della disciplina economica. Tra l’altro i critici all’economia comportamentale che affermano che il comportamento osservato sperimentalmente non è applicabile alle situazioni di mercato, difendono le loro posizione, secono me, in maniera miope e banale: sempre meglio partire da comportamenti reali, per quanto in contesti sperimentali, che da modelli dogmatici come quello del comportamento assolutamente razionale. Ormai sono migliaia gli esperimenti fatti in tutti i continenti che confermano la lontananza dell’homo oeconomicus dalla realtà.
    Se volessimo tracciare una separazione tra l’economia classica (che si continua a studiare nelle università) e l’economia moderna, potremmo dire che la prima si fonda sui dogmi (razionalità assoluta, efficienza dei mercati, equilibrio, ecc) e la seconda si fonda finalmente sui dati. Sono stati proprio la teoria dei giochi e l’economia sperimentale a far evolvere l’economia e ad ancorarla maggiormente alla realtà. Non sono quindi, secondo me, da contrapporre, bensì da integrare. La teoria dei giochi consente di scoprire le interdipendenze tra comportamento economico e comportamento sociale. Il vantaggio di questa teoria è che è matematicamente rigorosa. Lo svantaggio è che non tiene conto del contesto culturale e sociale in cui gli attori interagiscono. E’ da questo limite che partono le ricerche sperimentali che tengono conto dei comportamenti delle persone in cane e ossa.
    Tra l’altro l’economia comportamentale non afferma che gli esseri umani non siano razionali nelle loro decisioni, ma solo che a loro non può essere applicato tout court il modello dell’homo oeconomicus. I ricecatori dell’economia comportamentale, dopo migliaia di esperimenti, hanno appurato che le persone, pur non rifacendosi ad una razionalità assoluta hanno degli schemi comportamentali sistematici e prevedibili e quindi potenzialmente in grado di essere modellizzati. E’ questo quello che sta cercando di fare quella che viene definita “neuroeconomia”, ovvero combinare i metodi delle neuroscienze con quelli dell’economia (in Italia forse uno dei dipartimenti più noti è il CRESA – http://www.cresa.eu/neuroeconomia.html -dell’Università San Raffaele). Sicuramente si deve fare ancora moltissimo lavoro, ma questa mi sembra una strada molto interessante.

  6. Sono abbastanza d’accordo, ma ci andrei molto piano con le “migliaia di esperimenti”. Gli esperimenti controllati, replicabili e generalizzabili sono POCHISSIMI. E’ sempre così nel mondo scientifico (non mi sto riferendo all’economia comportamentale specificamente).
    In questo caso, poi, c’è anche il clash culturale tra addetti a discipline diverse (economia, psicologia), che sono aduse a metodologie diverse.

    Comunque, c’è un dibattito. A me sembra normale, data la complessità dei temi.

    Ti esorto a non vedere la ragione tutta da una parte, perché probabilmente non è così.

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